STAVOLTA NO! LA DEMOCRAZIA NON SI TAGLIA Referendum Costituzionale: perché il problema non è il numero dei rappresentanti

NDomenica 20 e lunedì 21 settembre siamo chiamati a votare su un referendum di natura costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari.

Molti commentatori illustri si lanciano in parziali e spesso approssimative descrizioni dei vantaggi e degli svantaggi che possono derivare dall’esito di tale consultazione.

La tentazione populista è l’elemento di maggiore tendenza all’interno del discorso politico. Infatti tra i sostenitori del SI l’argomento cardine è il risparmio economico  – in verità molto fittizio  – che si otterrebbe dalla riduzione del numero dei rappresentanti eleggibili.

Un altro tema è poi l’accelerazione dei processi di decisione, sottratti così alle lunghe discussioni di parte e condotti a più rapide soluzioni.

Nel caso del NO invece, oltre ad essere spesso motivato non da una ferrea convinzione della necessità di tutelare la visione dei padri costituenti, quanto da un interesse contingente dal punto di vista strettamente politico sia, per tentare una possibile spallata al governo in cui alcune forze governative, sicuramente quelle più rilevanti dal punto di vista numerico, si attestano invece totalmente   ( è il caso del Movimento 5 Stelle) o in buona parte (è il caso del PD) come sostenitori delle posizioni del SI.

Vi è poi una retorica sterile, di avversione all’antipolitica, che però abbraccia in fondo una non dissimile visione della funzione della politica nella società.

La crisi della democrazia parlamentare, non è la malattia ma il sintomo.

Da anni si assiste, soprattutto sotto le spinte mediatiche e dei poteri forti, a un progressivo indebolimento del ruolo del partito politico all’interno del quadro dei processi decisionali che passano attraverso le istituzioni elettive. Accanto a uesta, lenta e sembrerebbe inesorabile,  delegittimazione del partito politico come istituzione rappresentativa delle molte istanze  verso al cambiamento presenti nella società, vi è poi una più sottile ma ormai radicata regressione, del partito politico da agente di formazione di classe dirigente nella società, ad elemento di ascensione a ruoli di rappresentanza momentani e di opportunità.

Tutto questo si spiega attraverso il progressivo svuotamento delle facoltà del partito politico di essere sintesi funzionale di più elementi e visioni di una parte della comunità politica e sociale.

Il primo elemento attiene alla sfera storica: le istituzioni rappresentative nascono dalla necessità di sottrarre il potere decisionale alle élite , che spesso fino all’800 erano rappresentate dai più ricchi, per consegnare un potere di co-decisione alle diverse fasce presenti nella società. In collegamento con questa prospettiva, infatti la previsione di una diaria parlamentare, nasce dall’esigenza di mettere a disposizione dei rappresentanti dei ceti più deboli, le risorse per recarsi fisicamente nelle aule parlamentari e partecipare attivamente alla discussione politica eliminando il vulnus della differenza economica.  Questa scelta ha rappresentato un punto di svolta fondamentale, perché accompagnata da una legge elettorale che ha permesso con gradualità prima l’eleggibilità di tutti i maschi di età adulta al di là del censo e poi ha concesso il voto anche alle donne.

Dall’altro canto però l’allargamento delle facoltà dell’elettorato passivo, accanto alle spinte di cambiamento sociale che nella società italiana dei primi anni del Novecento hanno avuto luogo, si è avuto in conseguenza alle molte lotte un progressivo allargamento anche dell’elettorato attivo.

È stato possibile cioè che i rappresentanti del popolo non siano stati solo i più dei benestanti illuminati o dei borghesi progressisti: vi è stata la possibilità di eleggere rappresentanti del popolo provenienti dalle classi meno agiate.

All’interno dei partiti più rilevanti dell’arco costituzionale, da quelli più moderati a quelli più sensibili a una visione è una necessità di cambiamento più integrale della società, sono stati presenti rappresentanti dei ceti considerati più deboli, accanto ad altri appartenenti a ceti più forti.

La bellezza del quadro democratico prodotto, dal coraggio e dalla lungimiranza dei padri costituenti, risiedeva proprio nella capacità di quella comunità politica di rappresentare l’intera comunità nazionale al netto delle differenze.

Un progressivo indebolimento della facoltà parlamentare è cominciato, da Tangentopoli, una fase storica discutibile di questo paese, che pur non volendo giustificare negli errori e nelle mancanze, andrebbe riletta alla luce delle involuzioni attuali.

La radicale messa in discussione del sistema dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica, si può considerare oggi senza dubbio il frutto (non esclusivo) di una crisi dell’istituzione partito, in quanto sono mancate anche in contingenza della fine della guerra fredda, le capacità e le possibilità di dibattito e discussione sulle riforme dei partiti politici per come previsto dalla costituzione, e per come è fisiologicamente necessario in una fase di grande cambiamento storico.

Già allora infatti se da un lato le forze incombenti del mercatismo, spingevano, soffiando sul fuoco degli scandali verso una democrazia più decisionista, dall’altro il cambiamento semantico portato dalla globalizzazione ha indotto i partiti a spesso veloci operazioni di re-branding soltanto estetici e formali per adeguarsi allo “spirito del tempo”.

Questi cambiamenti non sono stati accompagnati, in verità, da autentici processi di revisione del ruolo del partito nella società, e dell’importanza o meno della rappresentanza politica istituzionale.

La velocità con cui il mercato agisce spinte di cambiamento, funzionali alla vendita di sempre nuovi prodotti mal si coniugava con l’articolazione della discussione democratica.

A ben guardare a distanza di quasi trent’anni da quegli eventi questa tendenza ha prevalso, tendendo sempre più il dibattito politico a orientarsi su uno strumentale accrescimento delle funzioni del ruolo del governo rispetto a quelle del parlamento, considerate invece tendenziosamente come più lente,  e per questo, meno adatte a reggere le spinte rapide e imprevedibili della continua riprogrammazione dei bisogni che il mercato attua.

Si è passati cioè da un mondo della politica a un mercato della politica, in cui i partiti concorrono all’elezione come i brand di uno stesso ambito merceologico concorrono ad un posizionamento nel mercato.

Le sfumature sono andate sempre più assottigliandosi diventando spesso quasi non rilevanti nella decisione finale di molti elettori: si vota infatti in base in base all’impressione che le campagne di comunicazione riescono a generare, in base, di solito, a una decisione affrettata e umorale che poco ha a che fare con i bisogni reali.

Che cosa c’entra tutto questo discorso con il referendum del 20 e del 21 settembre?

Probabilmente a un occhio più attento non sfugge come le ragioni del sì e del no siano  state presentate, nella maggior parte dei casi proprio come come espressione di orientamenti parziali o non sedimentati nella convinzione di coloro che gli hanno espressi e non come, sarebbe auspicabile, naturale esito di una discussione pubblica articolata nel merito.  Una discussione che è mancata, non solo perché la pandemia non ha permesso un onesto dibattito dentro e fuori i partiti, nella società, e nei corpi intermedi ma perché anche all’interno dei partiti stessi il posizionamento di diversi rappresentanti si è modificato in ragione della presenza o meno nel momento storico in cui, si affrontava parte della risicata discussione, al governo o all’opposizione di questo.

Una schizofrenia è ingiustificabile che  rischia di incrinare ormai definitivamente importanti conquiste frutto di anni di lotte.

Entrando nel merito della riforma, che manca di una ridiscussione dei regolamenti parlamentari, e delle funzioni dei due rami del parlamento, si può notare come una conseguenza immediata sarebbe una riduzione della rappresentatività di alcuni territori rispetto ad altri. Inoltre, se si passasse, si assisterebbe a maggioranze più forti distorcendo di fatto gli esiti della volontà popolare.

Le ragioni del NO da parte nostra, albergano infine in una considerazione semplice ma fondamentale

assente quasi assolutamente nella maggior parte degli analisi svolte anche dei più autorevoli quotidiani e commentatori politici.

Dagli anni 2000, proprio in ragione delle molte battaglie contro lo spreco di denaro pubblico che è una folta rappresentanza potrebbe generare, si è assistiti a un progressivo quanto acritico e pericoloso taglio della rappresentanza elettiva in ogni consesso.

Il primo ravvisabile segno  di questa inarrestabile ondata barbarica è rappresentato dalla riforma Gelmini: una riforma che riduceva all’osso i rappresentanti degli studenti negli istituti superiori e all’interno delle istituzioni elettive dell’università.

Tutto  mettendo in discussione da un lato i Decreti delegati degli anni Settanta, dall’altro una maggiore capacità del mondo studentesco di rappresentare le proprie istanze in seno ai diversi organi:  un accentramento cioè delle facoltà di decisione nelle mani dei dirigenti scolastici e dei rettori.

Una involuzione pericolosa in quanto gli studenti rappresentano la maggioranza numerica, delle persone che all’interno dell’università svolgono una funzione.

Questa espressa volontà politica, che concentra la decisione nelle mani di pochi delle sorti di molti, è proseguita nei vari organi di rappresentanza non più solo studenteschi ma generali.

L’abolizione delle province, la riduzione del numero dei consiglieri in seno ai comuni, e del numero dei consiglieri regionali avvenute in questi ultimi anni hanno significativamente ridotto la possibilità soprattutto dei più giovani o dei meno abbienti di candidarsi e di essere eletti. Di fare esperienza, formarsi e fare un curarsi honorum dignitoso.

Così la democrazia rischia di involvere in  oligarchia, in cui a decidere sono spesso i più ricchi in quanto la precarizzazione del mondo del lavoro mette seriamente a rischio grosse fette di popolazione che – impegnate nel mantenere con fatica il proprio posto di lavoro – hanno sempre meno tempo e facoltà di occuparsi della cosa pubblica.

Questo lo diceva già Kant alla fine del Settecento: il contadino non poteva occuparsi di politica essendo piegato nella propria fatica per molte ore al giorno e ad occuparsi di politica era il “Giovin signore”.

Le conquiste democratiche avevano inclinato questa modalità. Come ci spiega Colin Crouch,  nell’illuminante saggio Postdemocrazia, il rischio derivato da una acritica adesione al modello mercatista non più a livello solo socioeconomico ma pure politico sta mettendo in discussione non soltanto  la natura e la portata di tali conquiste storiche, ma – sotto la spinta di una globalizzazione sempre più incalzante – anche alcuni paradigmi fondamentali del mondo contemporaneo.

Il qualunquismo infatti è frutto del mantra mercatista del “ cosiddetto esercito di riserva” per cui chiunque può fare la stessa cosa se ha dei minimi requisiti utili.

Forse, e resta un dubbio aperto che speriamo di colmare nei prossimi anni, sarebbe il caso invece di concentrarsi di più sulla qualità degli eletti, scegliere cioè le persone che meglio possano rappresentare le istanze dei territori. E per fare questo, poiché lo scollegamento tra eletti e territori è frutto di leggi elettorali,  che assegnano sempre più alle segreterie dei partiti la decisione di chi debba essere messo in posizione eleggibile nelle liste, o sia degno di essere candidato nelle caselle più rilevanti, si proceda a una legge elettorale che riassegni totalmente agli elettori la facoltà di scegliere come e da chi si era rappresentati e poter scegliere le persone che per qualità oggettivamente riconoscibili possano meglio e più compiutamente essere espressione di istanze dal basso.

Infatti ricostituire un legame forte tra territori e suoi rappresentanti indebolirebbe la capacità dei segretari di partito di scegliere membri più fedeli alle linee imposte dalle necessità degli interessi più forti per ritarare l’offerta politica  sulle necessità delle basi, cui dovrebbero dar conto per essere rieletti.

Se in passato forse ci si è lasciati convincere dall’armamentario discorsivo populista e qualunquista, di natura mercatista che tutti i politici sono uguali, che l’unico loro interesse la poltrona, e che ciascuno fa esclusivamente il proprio tornaconto, stavolta NO non ci lasceremo convincere e potremmo guardare con più disincanto  ai processi in atto.

Spero che questa lunga digressione sia la bussola per chi nell’incertezza possa ravvisare un qualche elemento di valutazione della funzione storica del ruolo della rappresentanza democratica, tralasciando quindi gli istinti e gli umori figli del momento.

Una vera classe dirigente, quella di cui l’Italia ha bisogno,  può succube delle emozioni e dei sondaggi ma in ragione della propria virtù cardinale che è capacità di guidare e indirizzare la società in maniera fisiologica verso condizioni generali migliori rispetto al passato.

In ragione di ciò  può valere forse in parte l’esempio delle elezioni regionali in cui almeno vi è la possibilità di scegliere oltre che il partito o la lista anche la persona che ci rappresenta. Con cui il rapporto non si interrompa il 22 settembre per riaprirsi a fine mandato.

Abolire parte della rappresentanza democratica?

No grazie, preferisco la preferenza.