Ogni provenienza è futuro

Ogni provenienza è futuro

scriveva Martin Heidegger nel culmine della sua solitudine politica e intellettuale. La nuova ondata di giovanissimi che si affaccia timidamente sulla scena politica nazionale sembra intrappolata in un eterno presente, figlia legittima di un crisi organica e cronica del sistema democratico consolidato, costretta ad interpretare, e quindi a vivere, la propria esistenza storica come “ordinaria amministrazione dello stato di cose presente”.
Nessuna rottura, nessuna traccia di un effettivo stato d’eccezione.
Crisi del capitalismo finanziario, crisi dei gruppi partitici tradizionali e delle rispettive
culture politiche di riferimento, crisi di civiltà, crisi di identità, scomparsa del diritto
eurocentrico.
E mentre assistiamo alla dissoluzione degli ultimi residui delle categorie novecentesche, l’automatismo del tecno-capitalismo, legato al dogma ordoliberista, avanza rimuovendo ogni ostacolo e ogni possibilità di mediazione.
Siamo dinanzi ad un nuovo conflitto che dilaga su scala mondiale. Un conflitto tra capitale-lavoro-tecnica scatenata.
Le forze democratiche e progressiste dovrebbero irrompere all’interno del nuovo conflitto, incrementarne le contraddizioni ed infine accompagnarle verso l’estinzione, ma la sinistra italiana è paralizzata nel proprio provincialismo analitico, rintanata nel proprio microcosmo, presa in ostaggio in un limbo dove tutto scorre, ma nulla cambia.
Pasolini era solito distinguere il progresso dallo sviluppo bulimico, capitalistico e dannoso. Oggi bisogna prendere atto che lo sviluppo sfrenato, autonomo dalla direzione politica e democratica, rappresentato dal progresso tecnico-scientifico e supportato dalle dottrine neoliberiste, sta eclissando e plasmando persino il glorioso filone del realismo politico e del razionalismo occidentale.
Il nuovismo ha preso il sopravvento, i neofili hanno afferrato le redini del nostro Paese e di ciò che rimane del vecchio continente. Il rischio di Weimar sembra ormai sventato, piuttosto guardiamo inermi e vinti il collasso dello Stato italiano e la rottura dell’unità nazionale, il radicamento della post-verità, ovvero dell’essenza dei nuovi populismi che reclamano maggiore sovranità nazionale e sociale.

 

La nuova generazione porta sulle spalle il peso di un fardello storico opulento, il suo unico compito è quello di attuare una ricostruzione del tessuto sociale e democratico del Paese, una ricostruzione del rapporto tra centro e periferia, una riformulazione del concetto di popolo e di sovranità popolare.

La crisi della democrazia è così accentuata ed evidente, tanto da spingere gli ultimi veri intellettuali del nostro mondo (alludo agli esponenti dell’Ecole Barisienne come Biagio De Giovanni e Beppe Vacca, ma anche ai redivivi rappresentanti dell’operaismo italiano come Mario Tronti) a ritenere che l’unico modo per salvaguardare e proteggere il sistema democratico sia quello di tornare alle sue origini.
Ma come può la nuova generazione fronteggiare un processo di questa portata se priva di un armamentario culturale, se immune da un’educazione sentimentale verso l’universale, se incapace di maneggiare “il midollo del leone”, di essere padrona della storia e di farsi processo storico?
Una generazione è utile quando ha qualcosa da dire, altrimenti rischia di essere solo un accessorio per una modesta scenografia.
Ed è questo il destino che i promotori della Seconda Repubblica hanno riservato per le nuove leve, per le giovani energie dell’epoca nuova: una vita nel deserto, nell’adorazione di miti passati e un’insana passione verso cappi e processi sommari; il primato della politica è palla al piede, il garantismo un abito da indossare quando fa comodo, il tatticismo e il calcolo premeditato come unico mezzo per raggiungere il particolare guicciardiano.
Una generazione incapace di essere “golpe et lione”, lontana dall’iperpoliticismo, condannata a vivere in un perpetuo stato di minorità, di infantilismo e di analfabetismo politico.
La nostra vecchia classe dirigente (i “baby boomers” per intenderci) ha raggiunto il punto massimo di saturazione, la sua eredità è così misera tanto da non aver prodotto o quantomeno allestito vivai di cultura e di pensiero. Le scadenze elettorali vengono affrontate con accidia e ignavia, gli slogan che caratterizzano tutte le liste elettorali del centro-sinistra hanno una sola formula da sbandierare: largo ai giovani.
Quale incredibile mascalzonata!
I vecchi sono stanchi, ma i giovani lo sono ancora di più. Stanchi di vagare senza meta, senza paternità e senza patria, o peggio ancora con l’imbarazzo di sentirsi stranieri in patria; stanchi di essere percossi, consapevolmente o no, da questa spoliticizzazione di massa, da questa neutralità così distante dalla neutralità attiva e operante di Nino Gramsci, e ancora stanchi del freddo intellettualismo che serpeggia nei mondani ambienti della sinistra talmente concentrata sui diritti da dimenticare la tutela dei bisogni primari, talmente ansiosa di sottratte sottoboschi sociali alla destra da perdere di vista la frustrazione e il distacco preso dal movimento operaio.
Ha ragione di esistere la sinistra senza il sostegno dei lavoratori e degli studenti, senza la fiducia e la passione del suo blocco sociale storico?
E, allora, c’è bisogno di tanto pensiero e di tanta azione.
Possiamo ricostruire un’egemonia politica e culturale, una contro-narrazione, una contro-rivoluzione, solo se saremo in grado di individuare il vincolo fondativo di una comune esistenza, di un destino collettivo, di sciogliere il bandolo della matassa, di inaugurare un nuovo umanesimo, di ridare fede e speranza ad un popolo che esiste, soffre, sbaglia, spera, ma che vive rintanato nella propria solitudine individuale, nel proprio dolore insulare.
Non resta che progettare e interpretare il futuro come proiezione del presente sui fondamentali del passato. Teniamo a mente i due versi di Eliot, dal secondo dei quattro quartetti:
“Da vecchia pietra nuove costruzione. Da vecchio legno nuovi fuochi”.