Non v’è pace per chi sente palpitare il cuore a causa di una sola ragione: l’attimo poetico!
Il continuo rifiuto dell’omologazione porta l’uomo lontano dagli altri, e da se stesso, verso una giostra di sentimenti e pensieri intrisi di amletiche perplessità.
Ricerca, passione, interesse ed emozioni sono gli elementi di questa giostra che si rivela, però, a mano a mano, beffarda e consegna quest’uomo tra le braccia di un’unica e sola compagna: la solitudine.
Aggiustiamo leggermente il tiro: più che un rifiuto dell’omologazione, sarebbe più corretto parlare di stentate possibilità di rassomiglianza.
Dunque una specie di mancata omologazione che è dapprima implicita e poi esplicita.
Si tratta di un cerchio molto semplice: siamo in quello che ci manca, perciò andiamo alla ricerca.
La ricerca porta alla poesia e al conseguente abbandono, il quale lascia un segno indelebile.
Fuori da questo cerchio, o per meglio dire vortice, ci si guarda attorno e si scopre che alcune corde non sono condivise coi più.
E allora, semplicemente, è questione di non avere campi comuni col circostante, avvertendo un senso di unicità nel significato malinconico del termine: soli e lontani dal contorno.
Slegandoci dai tentativi di definizione, divincolandoci tra svariate interpretazioni, possiamo dire che in tale circostanza non vi sia migliore alternativa alla solitudine.
Per chiarire chiamiamo in causa il massimo esponente di questo pensiero: Giacomo Leopardi.
Leopardi riassume benissimo la condizione di non appartenenza a questo mondo propria agli artisti.
Più d’ogni altro componimento, “Il passero solitario” è rappresentativo di tal condizione:
“Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.”
Alla ristrettissima cerchia di artisti, che fa capitolo a parte, si aggiunge il club delle cosiddette anime belle.
Ed è proprio l’anima bella il soggetto in analisi.
Diceva Hegel nella “Fenomenologia dello spirito” che l’anima bella è:
«questa fuga davanti al destino, questo rifiuto dell’azione nel mondo, rifiuto che porta alla perdita di sé».
Non lo si poteva riassumere in modo migliore.
Chi trova nell’abbandono poetico un punto estatico appare agli occhi altrui come un diverso.
Ed hanno ragione, è assolutamente diverso, poiché applica quel rifiuto di cui sopra raggiungendo un senso di smarrimento che ha nella solitudine il suo unico rifugio.
Proprio nella solitudine l’anima bella ritrova se stessa.
Non si parla di uno spirito che vaga inetto e senza meta, si parla di un soggetto che per dare un senso al vacuo esistere non ha rifugi migliori se non il distacco.
Non c’è bisogno di condivisione, di omologazione, di nulla.
Ci si apparta, si va alla ricerca di se stessi, non dell’altro, e ci si ritrova soli a contatto con l’attimo estatico che regala l’abbandono.
Ma dove trovare l’attimo estatico?
Per esplicitare, nei limiti di quanto sia possibile spiegare un’emozione, ci soffermiamo sulla parte prettamente ed estremamente romantica del discorso: la poesia.
Poesia non intesa nei soli versi, quanto più in qualsivoglia forma d’arte.
Si può negare la poesia musicale de “Il barbiere di Siviglia” di Rossini? Si può negare la poesia romanzata de “I dolori del giovane Werther” di Goethe? Si può negare la poesia su tela de “La nascita di Venere” del Botticelli?
Sono o non sono poesia le tragedie di Sofocle?
Vogliamo intendere, quindi, quel sentimento di completa meraviglia ed assoluto stupore che si prova nel momento in cui si viene a contatto coi capolavori d’ogni forma.
È questo l’attimo poetico!
Il famoso crescendo Rossiniano, non spiegabile a parole, conduce all’estasi (si invita all’ascolto de “Il barbiere di Siviglia” e “L’italiana in Algeri”); la frase presente nel Werther: “Come di solito capita a questo mondo, nessuno comprende facilmente l’altro” è chiara oltremodo.
Non vogliamo essere compresi, ma solo prendere atto, convenire che non vi è via d’uscita.
Entrando nel campo specifico della poesia ci duole considerare che l’interesse verso questa è, a dir poco, limitato.
Non ci sono capri espiatori, non ci sono indici da giudice da puntare verso nessuno. Non c’entra il periodo storico, non c’entrano le scuole.
Si tratta di sintonie, di corde che solo la poesia può regalare e non a chiunque.
Ora, ben venga la teoria della soggettività delle scelte, ben venga la libertà di ognuno nel trovare appagamento in ciò che più gli aggrada, ben venga tutto questo perché è proprio tutto questo che non ha nulla a che fare con il nostro discorso. E chi non ha orecchie, non ascolti e non intenda.
Tanto meglio.
Non si tratta del “solo” interesse per la cultura, tutt’altro. Per quanto anch’esso assai limitato, è comunque, in lieve (lievissima) misura, “comune” (virgolettiamo, che non si sa mai!).
No no, qui si parla di emozioni non comuni.
L’anima bella si distacca, s’ha da perdersi per trovar se stessa grazie alla poesia, questo è chiaro.
Ma dove la trova questa poesia?
Non ci riferiamo alle pseudo poesie contemporanee di simil-poeti sfaccendati, per niente! Qui si parla dei classici.
E non solo a livello di produzione poetica quanto anche di cultura, in generale.
Esiste altra via che non conduca al classico?
Ebbene sì, l’ormai famosa “specie di mancata omologazione” citata inizialmente ha trovato identità!
L’ha trovata nel passato. Per forza di cose, per manifesta superiorità del classico e per manifesta assenza del presente.
Sarà pur vero che, dopo secoli in cui i versi sono stati glorificati in eccelsa maniera da letterati e artisti d’ogni dove, ora ci sia ben poco da produrre, da scrivere, ma la decadenza è gravemente preoccupante.
Certo è che non possiamo aspettarci oggi un Foscolo, ma se i versi devono essere quelli che si leggono in giro, almeno la decenza del silenzio sarebbe il minimo, per rispetto dei gloriosi fasti.
In “Vita di Carmelo Bene” il Maestro, lamentando la decadenza dei tempi, si esprimeva così:
“Tutto un altro ambiente quello rispetto ad oggi. Se non altro c’era uno strato culturale attorno, senza il quale non sboccia mai niente, né rose né spine. Con il vuoto attuale si affollano solo prodotti da supermercato. Al di là dei critici, trovavo in loro le mie verifiche umane. Ne avevo bisogno. Confrontarmi con chi stimavo. Oggi, con chi mi confronto? Il vuoto assoluto. Anche per questo è inutile andare in scena. In Francia trovai Deleuze, Foucalut, Mandiargues, Lacan, Dalì, Klossowski. Nel frattempo in Italia erano spariti tutti.
Penna, De Chirico, Flaiano, Turcato, Moravia, Morante, Landolfi, Eduardo de Filippo, Pasolini.
Muoiono tutti in pochi anni. Nessuno li ha rimpiazzati. Basta uno di questi, sai, per attenuare la tirannia delle plebi, questa carneficina inutile, di sterminati ettari di carne senza concetto.”
Appare ora più chiaro il concetto del nostro articolo? Lampante, precisamente al secondo rigo: l’assenza dello strato culturale!
In questi tempi morti defunti e sepolti, dove non fiorisce alcunché di produttivo, scoprire o riscoprire o approfondire i classici sembra essere l’unica soluzione, l’eternità del classico funge, oggi più che mai, da medicina.
Non vogliamo citare passi di alcun classico, non è necessario; dovremmo citare Shakespeare? Baudelaire? Dante? Superfluo.
Chi si sente solo, ben sappia che l’appoggio sulla solida base dei classici lo farà sentire appagato.
L’assenza del contemporaneo è solo un aggravante che potrebbe far perdere la rotta alle anime belle e senza meta.
Ma è proprio nel classico che l’anima bella si specchia, perché si slega dal concetto di attuale aggrappandosi al passato, che in quanto classico è ormai eterno .
Se già per Hegeliana definizione non si omologa ai tempi, necessita assolutamente non solo di andare indietro, ma anche di fermarvisi.
Ritornando sull’argomento generale di queste anime, da definire quasi in pena, avvalendoci ancora del supporto di Bene, nel suo romanzo “Nostra signora dei Turchi” si può notare come tutto quanto appena detto sia espresso dal protagonista in tutto il racconto: spaesato a contatto col circostante, incapace e inetto a confrontarvisi, impossibilitato ad omologarsi e più che mai basito nell’analizzarlo.
Un sentimento teso a sottolineare quel distacco, quel senso di disprezzo verso la maggior parte della massa che, sodomizzata dal nulla, non va oltre il quotidiano interesse rivolto all’avvicendarsi delle giornate.
Fossero almeno capaci di seguire il passare dei giorni rivolgendo alla luna le dolci e profondissime parole che le poneva il Leopardi!
Tra le tante, alcune tratte da “La vita solitaria”:
“O cara luna,
…
Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro …
A deserti edifici
Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil
…
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell’etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.”
E invece no! La massa si identifica ogni giorno con se stessa dedicando il proprio tempo a commenti superflui e ad interessi minimi, bisogna prenderne atto.
Trattasi di corsi e ricorsi storici.
Il disinteresse nei confronti della cultura in sé (lo si sa da sempre, non fa notizia) è dovuto ad assoluta mancanza generale e generazionale di lume, ad un continuo occuparsi del niente con le più giuste etichette da appendere a seconda della situazione (se l’argomento è medico son tutti dottori, se sociale tutti sociologi e via discorrendo).
Chi si abbandona all’attimo poetico non ha alternative al distacco, è fisiologico.
Quale soluzione migliore per l’anima bella se non quella del passero solitario di Leopardi?
Se si è passeri solitari tutto ciò lo si ripugna, non interessa.
Si preferisce l’attimo, la poesia.
E se si è pochi o soli in questi campi, tanto meglio.
Bisogna starsene “D’in su la vetta della torre antica” a veder passare, ignorandole, le fugaci e più che mai stupide passioni delle masse (che son pur sempre di interesse inferiore rispetto all’udire “greggi belar, muggire armenti”).
Bisogna farlo così: “tu pensoso in disparte il tutto miri”.
E pensosi rimanere, senza soluzione alcuna.
Uno straniero in terra d’altri, un minuscolo punto esclamativo in una gigantesca ed uniforme massa di punti interrogativi!