“Guccini e il lento scorrere senza uno scopo”

Parlare di Guccini vuol dire consultare un dizionario fatto musica.

Non è assolutamente facile pensare al numero totale dei versi che attraversano le sue canzoni, tanto più risulta difficile, ma più che mai fantastico, immergersi in questo intricato percorso di frasi che si incastrano e si mescolano alla perfezione, celando molteplici significati estremamente profondi.

Per Guccini non adoro fare una analisi cronologica, preferisco partire dal tutto ed entrare poi nella parte.

L’unico appunto da menzionare prima di addentrarci nell’analisi riguarda un curioso incipit: la prima canzone del suo primo album si chiama “Noi non ci saremo”; in questo brano si parla di un mondo futuro che andrà comunque avanti e farà benissimo a meno di noi, dato che, tema principale della canzone, a più riprese è stato deturpato.
L’altro dettaglio che emerge dal brano è l’incertezza della vita che si risolve nel titolo, come a far capire che è sempre bene mettere da principio in chiaro come stanno le cose.
E fa bene Guccini; si presenta cosi, a gamba tesa.

A tal proposito e ricollegandomi al succitato “tutto Gucciniano”, mi vengono in mente questi versi:

“Nebbie, ricordi, pena, profumo:

son tutto questo le mie canzoni”;


“Il lento scorrere senza uno scopo

di questa cosa che chiami vita”.

I primi due sono la conclusione del brano “Una canzone” tratta dall’album “Ritratti” del 2004; inoltrandoci nell’analisi “grammaticale” potremmo avere un quadro riassuntivo abbastanza veritiero riguardo le sue canzoni, ed ho motivo di credere che l’ordine da lui scelto non sia casuale: la nebbia è il chiaro disorientamento iniziale che si avverte quando si viaggia alla ricerca del senso della vita, i ricordi sono un tentativo di collocamento sulla retta via del pensiero, una sorta di guida che porta assolutamente verso un sentimento inequivocabile, ovverosia la pena di non aver più la possibilità di vivere quei dolci momenti, ma è pena che si trasformerà poi in profumo di vita, che non avrà ancora trovato il suo significato, ma che ha bisogno di essere vissuta.
Sono esattamente questo le sue canzoni, un continuo andare alla ricerca con estemporanei tentativi di trovar la logica.

Gli altri due versi sono, nuovamente,  conclusione del brano “Lettera” tratto dall’album “D’amore di morte e di altre sciocchezze” del 1996.

E cosa abbiamo detto poc’anzi?
Esattamente quello che Guccini dice in quei due versi.

Per dirla con Shakespeare per mezzo di “Macbeth”:

“La vita è una favola narrata da uno sciocco, piena di strepito e di furore ma senza significato alcuno”.

Basterebbero questi due esempi per portare un curioso ricercatore alla scoperta di Guccini.
Ahimè, c’è da dire che Guccini non è poi tanto amato da tutti; e voglio qui esser breve: è giusto che sia cosi e, a tal riguardo, cadono chiarissime le sue parole in “Vedi cara”, brano dell’album “Due anni dopo” del 1970:

Vedi cara, è  difficile spiegare 

È difficile capire se non hai capito già

Qui andiamo un po’ oltre il più che mai sciocco e ritrito de gustibus, qui bisogna vedere se ci si arriva a Guccini o no, o meglio, se ci si vuole arrivare o no; mi si può obiettare che la sua voce e la sua “R” non siano le più belle del pianeta, che alcuni brani possano essere pesanti o che altri siano troppo lunghi, risponderei sempre con i versi di sopra aggiungendo che, comunque, spiacere è un “suo” piacere, o ancor meglio:

E quindi tiro avanti e non mi svesto
dei panni che son solito portare
Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto

(“L’avvelenata”, dall’album “Via Paolo Fabbri 43” del 1976)

 

Perché con Guccini o si è sociali o, si spera, si è antisociali; e pur ammettendo plausibili le non plausibili valutazioni di cui sopra, ci dovrebbe essere un normale lavoro di ricerca, di approfondimento, di volontà di capire il significato dei brani e dunque un andare oltre il brano. Solo allora potrei continuare a (non) capire un “Guccini non mi piace”.

 

 

Guccini è un infinito in cui vale la pena perdersi.
È un infinito di letteratura, di storia, di morale.

La letteratura del “Don Chisciotte”, meravigliosa trasposizione che riassume in un brano le mille pagine di Cervantes e la letteratura di “Odysseus”, fantastica, appunto, Odissea in versi cantati da un nuovo Omero;

la storia della scoperta dell’America (riscoperta, mi preme precisare, poiché postuma rispetto al famoso passaggio dallo stretto di Bering di popoli e genti vissuti un bel po’ di secoli prima del famoso 1492) di Cristoforo Colombo minuziosamente descritta nell’omonimo brano tratto, cosi come “Odysseus”, dall’album “Ritratti”, ma anche la stupenda memoria storico-geografica delle varie latitudini: “Bisanzio”, “Bologna”, “Venezia”.

Ma Guccini è soprattutto un infinito di morale.

Voglio qui essere sacrilego: lascio da parte “La locomotiva”, perché La locomotiva” si ama, non si discute, non si commenta e non ha bisogno di nulla.
La locomotiva” è come Dio ed in teologia si fanno solo domande, non si danno risposte.
Torniamo sulla terra.
Vi sono tantissime canzoni che fanno capire cosa intenda Guccini per morale.
A mio parere, una più di tutte, in assoluto, riassume alla perfezione le sue idee.
Sto parlando di “Canzone di notte n.2”, capolavoro assoluto.

Il Maestro ha più volte ripreso senza mezzi termini e con “avvelenata” saggezza i vari personaggi che capita di incontrare nella vita di tutti i giorni: dal politico al religioso fino al “militante austero” e ai “feroci conduttori di trasmissioni false” e chi più ne ha più ne metta.
Ma nel brano tratto dal meraviglioso album “Via Paolo Fabbri 43” si raggiunge l’apice poiché, opponendosi a qualsivoglia forma di imposizione e scardinando qualsiasi tipo di dogma, da quest’apice fa cadere a picco chiunque ed in tutti i sensi:

Ma i moralisti han chiuso i bar

E le morali han chiuso i vostri cuori

E spento i vostri ardori

È bello ritornar, normalità

È facile tornare con le tante

Stanche pecore bianche

Scusate, non mi lego a questa schiera

Morrò pecora nera

Saranno cose già sentite

O scritte sopra un metro un po’ stantìo

Ma intanto questo è mio

E poi, voi queste cose non le dite

Poi certo per chi non è abituato

Pensare è sconsigliato

Poi è bene essere un poco diffidente

Per chi è un po’ differente

Qui c’è tutto Guccini, una accusa totale verso tutti i falsi profeti del nulla, buoni a consigliare ed un po’ meno a fare, buoni a dire dell’altro e non di se stessi.
E,  chiaramente, negli ultimi due versi, prende un naturale e ovvio distacco totale da questi famosi tuttologi, per rincarare la dose e chiudere definitivamente così:

O forse non è qui il problema

E ognuno vive dentro ai suoi egoismi

Vestiti di sofismi

E ognuno costruisce il suo sistema

Di piccoli rancori irrazionali

Di cosmi personali

Scordando che poi infine tutti avremo

Due metri di terreno

Ci andrebbe un punto esclamativo enorme e nient’altro da aggiungere.

Ah, ditemi ancora che non vi piace Guccini che aumento la mia dose di diffidenza!
Suona meglio se detto da Nietzsche:

Occorre sbarazzarsi del cattivo gusto di voler andare d’accordo con tutti.

Le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili e le rarità ai rari.

 

Fatemi parlare d’amore” disse prima del brano “Farewell” in

Anfiteatro live” del 2005, perché, da buon poeta,  ha parlato
(e parla, i testi non hanno tempo) anche, ovviamente, d’amore;
nell’amore e nei momenti di amore puro, si può, senza dubbio, trovar medicina ai ripetuti attimi di monotonia vitale o di tedio esistenziale.
John Donne in “Tre volte pazzo”, in uno dei suoi tanti eccelsi balzi di splendore affermava:

“Al dolore e all’amore
La poesia si addice”

E il buon Maestro ha seguito alla lettera questi versi raggiungendo componimenti eccessivamente profondi;
volendo citarne solo due,  

“La canzone delle colombe e del fiore”:

Amore, nel mio giardino vorrei fiorisse la tua rosa

perché l’anima mia si perda dove il corpo rinasce e riposa”,

e “Vorrei”:

Vorrei restare per sempre in un posto solo

Per ascoltare il suono del tuo parlare

entrambe contenute nell’album: “D’amore di morte e di altre sciocchezze”, che, come a voler riprendere i versi di sopra di Donne, sottolinea la superiorità del ruolo dell’amore e della morte, temi carissimi ai poeti, rispetto al resto, le sciocchezze.

Dal primo all’ultimo Guccini vi è, come anticipato nell’incipit dell’articolo, un tema ricorrente, evidente e quasi fisso: il tema del dubbio.
Un continuo chiedersi, andare alla ricerca nella pesante nebbia, di cui abbiamo parlato in precedenza, senza mai giungere ad una risposta che sia diversa dal non avere risposte.

In un’intervista del Luglio 2017 rilasciata su asia.it afferma:

Forse con un’intuizione si può arrivare vicino alla Verità, ma senza toccarla, senza mai riuscire a metterci le mani sopra.”

Per dar manforte alle sue stesse parole e chiosare comprendendo l’impossibilità di risolvere questo atroce dubbio,  diceva Montale in Non chiederci la parola”:

“Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”

e Guccini gli fa eco nel brano-titolo del suo album del 1990  “Quello che non”:

“È l’urlo di sempre che dice pian piano:

“Non siamo, non siamo, non siamo””

ed anche, categoricamente, negli ultimi versi di “Incontro” (dall’album “Radici” del 1972):

Noi corriamo sempre in una direzione

Ma qual sia e che senso abbia chi lo sa

Restano i sogni senza tempo

Le impressioni di un momento

Le luci nel buio di case intraviste da un treno

Siamo qualcosa che non resta

Frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno“.

 

Quanto detto in apertura torna più che mai rilevante ora: partendo dal suo tutto abbiamo toccato più parti, ma meglio di lui, meglio delle sue parole e dei suoi testi nessuno può spiegare chi sia e cosa sia Guccini.

Ciò che conta è approfondirlo, entrare nei suoi testi e lasciarsi travolgere da quella cascata di parole che, statene certi, vi farà uscire arricchiti da questa esperienza .

Fidatevi di  quel che diceva Boris Pasternak mediato da Carmelo Bene:

Il poeta vede al tempo stesso

E da un punto solo

Ciò che è visibile a due

Isolatamente

E Guccini, come ogni poeta che si rispetti, è un antesignano, non a caso “ci girava già vent’anni fa”!