DEFINISCIMI LA VITA E TI DIRO’ LA DEFINIZIONE DEL DRAMMA Dialogo sopra i massimi sistemi musicali e teatrali con Ildebrando Pizzetti

 

Ildebrando Pizzetti (1880-1968) celebre musicologo e compositore, pubblicò “Musica e dramma” nel maggio del ’45, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale in Italia. L’incipit nasce come dialogo (di stampo platonico allievo-maestro) tra lui e un suo amico musicista sul senso del dramma e la differenza tra una buona musica e il chiacchiericcio. La storia del melodramma è ciò che lega i due interlocutori, a partire dalle polifonie rinascimentali fino a Wagner: viene menzionato il genio di Monteverdi come il primo dei musicisti del teatro dall’”istinto drammatico”[1], inoltre riaffiora la domanda del perché il teatro tutto cantato, nel suo essere espressione composita e artificiale dal Seicento in poi, veniva prima sentito/percepito come “espressione totale di un momento di vita universale”[2] e dopo – nell’epoca neoclassica novecentesca- come dramma musicale in crisi.

«Definiscimi la vita, e ti dirò la definizione del dramma»[3], risponde in modo nietzschiano il musicista alla domanda di Pizzetti sul che cosa oggi si intende per “dramma”, perché vivere equivale alla conquista di un bene immateriale, ad esempio l’amore per l’umanità, la volontà di trascendersi, la forza di sacrificio o l’aspirazione alla giustizia in lotta contro il male, questo è il dramma. La vita vera è degna di essere rappresentata e cantata, e non solo i fatti storici o le storie leggendarie, in ciò la potenza della musica domina su tutto. Non tutti i poeti erano conoscitori esperti di musica del loro tempo, si citano Shakespeare e Goethe, eppure è impossibile non scorgere nei loro lavori un’atmosfera estetico-musicale-teatrale in sé, non a caso riproposta successivamente dai librettisti-compositori.  Che cos’è il canto? E che cos’è la melodia? Sono emozioni, si legge nel testo, passioni non geometricamente definibili, nonostante vi siano regole, forme, ritmi, lunghezze d’onda del suono ecc. Pensiamo ad un filosofo come Spinoza in ascolto di un’aria belliniana (ragionamento per assurdo), che cosa dedurrebbe dalla potenza cosmica di una Casta Diva dal «pianto universale senza singulti e senza gridi, liberazione, purificazione, felicità” in forma lirica?»[4].

La divina Maria Callas interpretò la Norma 89 volte tra il 1948 e il maggio 1965

L’arte rivela da sé: «Un quadro è l’espressione di un dramma in azione o il superamento lirico di un dramma, se è arte, se no è tela sporca; una chiesa è l’espressione architettonica di un’ascensione lirica vittoriosa di un dramma di anime e di coscienze, se è opera d’arte: se no, è una rimessa o un magazzino. La musica di un’opera sinfonica, di un’opera puramente strumentale, esprime anch’essa, sia pure senza parole, un conflitto drammatico o il superamento di esso, se è musica: se no, non è musica, è giuoco di suoni, è rumore»[5]. Nell’epilogo Pizzetti spiega che questo dialogo nasce dal suo voler dimostrare che il melodramma dell’800 è anch’esso in parte un dramma vero e proprio. Il ‘dramma’ (poesia e musica)  insieme non è solo melodia, orchestrazione, il fluire di recitativi e arie, è a priori il conflitto dei sentimenti che smuovono i personaggi in scena.  Interessantissima è la fenomenologia pizzettiana nel saggio “La musica delle parole”, la differenza tra linguaggi, segni, suoni, voci e melodie, perché la musica sulle parole e attraverso esse può ascendere il sublime, qualcosa di intimo che è presente in noi, scrive «(…) e per vedere il cielo noi dobbiamo sì, guardar fuori, ma per sentirlo dobbiamo guardare dentro» dall’eco squisitamente etico-kantiano[6]. Quando si parla di dramma musicale, per Pizzetti, non c’è un prima e un dopo, poesia e musica si fondono, autori come Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi sono i precursori del dramma musicale perché esauriscono il gusto melodrammatico, il loro compito rivelatorio non distrae la vita ma la smuove dall’interno: «Ora, lasciatemelo dire: basterebbe pensare che quando un essere umano si commuove, egli, almeno in quel momento, si sente buono, o più buono più generoso più umano diventa, per concludere che ‘una sola’ musica può essere considerata degna della nostra coscienza di uomini e di essere lasciata ai nostri figli; quella – che per me è la ‘vera musica’ – che commuove: perché mi pare che oggi come forse non mai, oggi più che mai, di essere e sentirsi buoni gli uomini abbiano bisogno»[7]. Infine, in questa raccolta immensa sono presenti due lettere sul ‘saper ascoltare’ a Ippolito, un giovane ragazzo inesperto di musica e trepidante d’imparare cose nuove. Il “volere ascoltare musica”[8] è complicato, lo è ancor di più se non si riesce a prestare attenzione su di sé e ciò che si ascolta. Durante l’esecuzione di una sinfonia o di un’opera, sarebbe interessante secondo Pizzetti dimenticarci degli interpreti e di chi produce musica in quel momento (i sensi e poi l’intelletto), nelle loro movenze meccaniche, perché solo così la musica ci entra nel profondo, o sprofondiamo nel suo mistero o rimaniamo inermi. Per sentire la potenza e la grandezza di un Wagner, Strauss, Beethoven, Verdi, Puccini…occorre conoscere le loro biografie? «(…)la prima condizione del sapere ascoltare musica è porsi di fronte alla musica senza pretese preconcette, ma con simpatia e con umiltà»[9]. La musica offre umanità, chiarisce Pizzetti, e deve essere accolta con valori esistenziali umili e empatici, e forse l’unico modo per poterla sentire e comprendere è “godere”.

 

[1] Ildebrando Pizzetti, Musica e dramma, Edizioni della Bussola, Roma, 1945, p.41.

[2] Ivi, p. 42.

[3] Ivi, p. 43.

[4] Ivi, p. 52.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, p. 80.

[7] Ivi, p.111.

[8] Ivi, p.172.

[9] Ivi, p. 178.