Saper leggere il passato per interpretare il presente. Alla luce della crisi di identità che la disciplina storica attraversa ormai da anni, sembra essere questo il mantra da tenere bene in mente quando ci si chiede a cosa serva la storia in questo nuovo millennio, che si autodefinisce post-moderno e risulta affetto dalla malattia del cosiddetto “presentismo” perché si schiaccia sulla dimensione del presente, appunto, trascurando il passato.
Mala tempora currunt per le discipline umanistiche in generale: tutto ciò che non ha ricadute pratiche e visibili nell’immediato viene tacciato di inutilità. La Cultura fine a se stessa (che non è una parolaccia), elemento centrale per l’arricchimento personale, perde di valore. L’era informatica ha contagiato anche la percezione della realtà: tutto è ridotto al “sistema binario” della contrapposizione dicotomica, tutto è banalizzato come in un grande social in cui si deve scegliere tra like e dislike. Ogni sfumatura è bandita. Il motto imperante di questa dimensione è la velocità (che è differente dalla rapidità, come lo stesso Italo Calvino esprime bene nelle sue postume “Lezioni americane”).
Quello che la storia insegna – se insegnata bene – è proprio che la realtà sociale non può essere banalizzata e ridotta a contrapposizioni semplicistiche. La riflessione sulla complessità di situazioni passate può educare alla riflessione sulla complessità delle situazioni attuali, sviluppando così la capacità critica. Non è un caso che uno degli storici più influenti del Novecento (se non il più influente), Marc Bloch, abbia iniziato il celebre “Apologia della storia” del 1949 con questa riflessione «Papà, spiegami allora a cosa serve la storia» e abbia poi scritto che «ogni ricerca dello storico deve avere alla base un questionario», che lo guidi nell’investigazione. Dall’osservazione del presente, dunque, al passato e viceversa. Lo storico non può non essere un osservatore sociale prima di tutto.
In un contesto in cui il desiderio di informazione quotidiana inciampa costantemente in un percorso a ostacoli tra notizie vere e fake, la storia può fornire il metodo per comprendere in che modo orientarsi. Perché alla base di una ricerca storica scientificamente valida vi è proprio l’analisi di fonti attendibili. Quindi, la riflessione storica diventa antidoto e anticorpo alla dilagante strumentalizzazione di eventi del passato e del presente e che trova nel medium digitale un potente alleato e amplificatore per lesue caratteristiche intrinseche: la velocità di diffusione delle notizie, la mancanza di un contraddittorio e la sua “natura democratica” per cui chiunque può credersi anche solo per una volta storico o medico sentendosi in diritto di trasformare opinioni in certezze in assenza di quella verifica che è alla base del metodo scientifico.
Il risultato è da un lato l’esasperazione di questa “cultura-fai-da-te” e parallelamente la perdita di un ruolo riconosciuto al professionista ed esperto. È chiaro che il cambiamento improvviso delle modalità comunicative conseguenti alla trasformazione digitale ha colto impreparati molti, soprattutto in un settore – quello della ricerca storica – poco avvezzo agli strumenti comunicativi contemporanei, basati sempre di più sulla brevità e l’incisività, su quella banalizzazione di cui appunto si diceva, contro l’approfondimento e la valutazione di opinioni differenti e antitetiche che sta alla base del metodo dialettico. È chiaro, dunque, che tutto questo sta portando alla necessità di rivedere le modalità narrative di una storia che deve riprendere in mano le redini della divulgazione. Recentemente intervistato a proposito dell’eliminazione del tema di storia dalle tracce della maturità, Andrea Giardina, presidente della Giunta centrale per gli studi storici, ha ribadito come «gli spazi vuoti lasciati dalla storia sono sempre più riempiti dalle storie, quelle false, inventate da dilettanti: fenomeno inquietante». Il peggio arriva quando le stesse storie sono appositamente create con l’intento di strumentalizzazione politica. Come sottolinea Renato Camurri nell’introduzione alla traduzione italiana del libro “Manifesto per la storia. Il ruolo del passato nel mondo d’oggi” (D. Armitage, J. Guldi, Donzelli 2016), la crisi della storia come disciplina accademica non ha infatti coinciso con una caduta della domanda di storia. Questo significa che a questa domanda si risponde, oggi, con una storia «veicolata con i mezzi più improbabili e soprattutto gestita non dagli esperti ma dai media, dai giornalisti».
Si tratta di un tema che richiama immediatamente altre questioni importanti, come l’organizzazione degli studi universitari e della ricerca storica, la situazione dei luoghi in cui questa si pratica ovvero gli archivi e le biblioteche, l’insegnamento della storia nelle scuole. Non è forse vero che la scuola, ancor prima di fornire nozioni, dovrebbe formare menti pensanti, cittadini maturi (quale, altrimenti, il senso di Maturità…)? E quale migliore modo di riflettere sulle dinamiche della società odierna se non attraverso la conoscenza del passato, delle modalità attraverso cui siamo arrivati ad essere ciò che siamo. Si tratta di argomenti complessi, che non è possibile trattare in questa sede e che richiederebbero contributi specifici. Ciò su cui, però, è ora necessario riflettere è su come la storia, che elegge a elemento nodale le prove e mette al centro la distinzione tra fatti storici verificabili e inventati, sia una potente arma contro le omissioni e le distorsioni della memoria.