Sono sempre stata troppo competitiva per lo yoga.
Mi piace e meditare è l’unica cosa che mi ha impedito di commettere un omicidio e passare il resto dei miei giorni in carcere, senza Netflix e il sushi a domicilio.
Il problema è che ad ogni lezione mi faccio sempre male, è una certezza: entro in competizione, divento nervosa, spingo troppo i muscoli in una posizione, i legamenti si tendono, i nervi si sovraccaricano e finisco per terra, trascinando con me la biondina snob che sul tappetino accanto era in una verticale perfetta sulla testa.
Perché io, le posizioni difficili, le devo padroneggiare. Non esiste che getti la spugna solo perché non riesco a leccarmi il gomito con un ginocchio dietro la nuca. Io devo farcela, devo soffrire nell’impresa o morire tentando.
“Ti accanisci e non va bene, lascia perdere. Ma scusa lo yoga non ti ha insegnato proprio un cazzo?” Francesco mi fissa dallo smartphone mentre sorseggia una Raffo. Smette di masticare le patatine e dichiara “ti farai uccidere”.
L’unico modo che adesso ho di sopravvivere dopo 35 giorni di quarantena in un hostel vuoto con due sudamericani affetti da bipolarismo cronico, è fare dei lunghi aperitivi in video call con i miei migliori amici.
Amici che criticano le mie politiche di azione in stato di emergenza (ma solo per farmi sentire in linea con il mio paese di origine).
In 35 giorni ho riconosciuto, metabolizzato e superato tutte e cinque le fasi del LUTTO:
– Negazione e rifiuto: “non può essere vero, domani mattina mi sveglierò e sarà stato tutto un incubo”
– Rabbia: “è mai possibile che in un paese occidentale non si sia capaci di gestire civilmente e umanamente una emergenza come questa? Alle prossime elezioni disegnerò culi sulla tessera elettorale”
– Negoziazione: “ok. C’è l’abbonamento a Netflix, posso ordinare la spesa on line, ho un sacco di libri e una tonnellata di cioccolato”
– Depressione: “non finirà mai, morirò in questa stanza con mille letti vuoti, irritante musica caraibica di sottofondo e non rivedrò mai più nessuna delle persone che ho amato in questa vita infame e ingiusta”
– Accettazione: “bene, ormai siamo a 30 giorni passati, stiamo sopravvivendo perché siamo un team. Lo siamo, e se non lo siamo lo saremo. Questa è la chiave della sopravvivenza”
Ecco. Quest’ultima è la grande idea di cui mi sono convinta, l’Everest delle pessime scelte, la Crème brûlée delle minchiate: l’amicizia forzata.
“Siracusa è troppo orgoglioso per scendere a patti con Battipaglia. E Battipaglia è un imbecille inaffidabile!” per tutelare la privacy dei miei coinquilini (e poterne tranquillamente sparlare con i miei amici) ho attuato quello che chiamo “protocollo Casa de Papel”: dare ai miei colleghi i nomi delle loro città di origine italiane. Sembrerà strano, ma ci sono moltissimi sudamericani che in realtà hanno bisnonni e avi italianissimi, nati in città del sud lontane dalle calde spiagge latine.
Cosa strana ma per niente rara, che permette loro di avere documenti italiani comunitari così da entrare legalmente in Europa. Sia chiaro: non parlano una parola di italiano e anche solo per poter litigare con loro ho dovuto imparare lo spagnolo sudamericano sbiascicato da strada, ma meglio di niente.
Il problema è che sono tra due uomini completamente differenti, che intendono i legami e relazioni in maniera differente e diametralmente opposta.
Non riesco ad immaginare un ricordo bello in questo posto o relativo al mio lavoro che non includa Siracusa: con lui è stato tutto semplice, graduale, naturale. Siamo amici dai primi giorni, le sue tisane mi hanno dato sollievo durante i raffreddori di Novembre, le confidenze e i pettegolezzi nella hall prima di andare a dormire, i problemi alla reception affrontati insieme, le buonissime zuppe di verdure a fine turno e le litigate furiose e improvvise perché il machismo latino non sempre coincide con la visione progressista e femminista di questa città.
A fine di ogni discussione c’era sempre del matè ad aspettarmi, una pacca sulla spalla e un “andrà tutto bene” anche adesso.
Battipaglia è una superball di zectron, palla magica che rimbalza su tutti i muri che si costruisce da solo: prima è amichevole, premuroso, gentile, poi diventa ombroso, scostante per qualcosa di banale, una inezia da cui si è sentito ferito. Si controlla per la maggior parte del tempo, i suoi gesti sono misurati, le parole selezionate, mai troppo vicino né troppo lontano per mantenere il controllo della situazione. E poi ci sono giorni in cui è a mille: ti cerca, è presente, ti abbraccia, il caffè al mattino, la merenda insieme, “come stai oggi? Che hai fatto stamattina? Lo hai già letto questo libro?” prima di sparire di nuovo, isolarsi, abbandonare noi due in questa dimensione straziatamente umana per nascondersi nella sua parte inarrivabile, quella fredda senza confidenze e sguardi complici.
Non saprò mai se si isola perché si sente già isolato, se il rapporto che abbiamo io e Siracusa lo mette a disagio perché troppo fraterno e confidenziale. E lui, studente in ascesa con tante velleità non riesce ad essere spontaneo: troppi schemi da seguire, troppe aspettative da soddisfare, troppa ansia da prestazione sociale. L’uno non si fida dell’altro e io sono l’anello che maldestramente unisce questo trio disfunzionale.
Solo l’altra sera Battipaglia si è concesso la perdita del controllo, la spontaneità con la caduta della maschera: quando mi ha offeso, risentito, per una mia battuta su uno dei suoi “appuntamenti amorosi” in video call. Il suo volto deformato, la cattiveria delle sue parole e quel senso di amarezza e di perdita improvvisa.
Peccato, fossimo stati affiatati avremmo potuto aiutarlo in questa sua parata romantica: io e Siracusa ci saremmo vestiti da camerieri, lui avrebbe avuto l’illusione di essere a cena in un ristorante e noi quella di avere un amico.