Nome e cognome?
“Giovedì andai a caccia, beccai una beccaccia, venerdì me-la mangiai, peccai o non peccai?”
Forse il mio amore per i giochi di parole è cominciato dalla risata di mio nonno Giorgio quando mi ripeteva questo indovinello.
Mi chiamo Grazia Amelia Bellitta, un’identità che non è stata facile da cercare. Così, quando quel nome raro, mi suonava strano, ricordavo l’indovinello, ricordavo la risata, ricordavo la leggerezza dell’autenticità e cominciavo a farmi chiamare Mela Mangiai.
Segno Particolare?
Sono riuscita a sfuggire all’inquisizione perché ho sempre amato di più le falene che le farfalle. Quel velo di cenere che si forma sui carboni accesi o sulla carta che brucia è sempre stato il profumo che più di tutti ho amato. Il metallo vivo che spesso porta la tachicardia mi ha insegnato la calma. Il fuoco insegna ad osservare la luce. Il contatto nudo e crudo, le mani sporche di terra e il profumo della pioggia d’estate. Mi vengono in mente le mie sensazioni, quelle difficili da raccontare ma che risiedono nello stomaco.
La tua “prima volta”?
Probabilmente la mia “prima volta” coincide con la paura del buio, da piccola. Quando ho capito che nell’indefinito puoi vedere ogni cosa; quando i miei occhi sono diventati i miei migliori alleati anche da chiusi.
(Si, la psichedelia è stata una strepitosa scoperta!)
Che cos’è per te la Fotografia?
A 12 anni i miei occhi hanno mostrato i primi cenni di un “difetto visivo”. Per “vedere meglio” e da “lontano” dovevo strizzarli. Dovevo concentrarmi, dovevo interpretare. A volte i mal di testa erano terribili e, dopo poco tempo, mia madre aveva tra le mani quel foglio firmato dall’oculista. Era pieno di numeri e con un disegno stilizzato dei mie occhi. La mia diagnosi. Per tanto tempo non ho sopportato di avere un oggetto sul mio naso. In realtà, ciò che non riuscivo ad accettare era quella “schiavitù del mezzo”: se toglievo gli occhiali vedevo male e tornavano i mal di testa. Solo dopo molti anni, ho capito che dovevo benedire il “non vedere bene” per “poter vedere meglio” fino ad accogliere questa esperienza come metafora, nella mia ricerca e nella mia vita. La fotografia, per me, non è solo quella necessità di lenti per “vedere bene” ma annullare quello sforzo, quella causa del mal di testa, per farsi guidare dallo sfocato e da nuove e infinite realtà. Solo così le macchie colorate sono diventate mie alleate e, solo così, ho cominciato a ballare una danza archetipica: non vedere bene mi ha fatto vedere meglio me stessa. Gli occhiali li porto ancora, ma a volte li tolgo per conoscere di nuovo, tranne se non sono alla guida di un veicolo, ovvio!
Una cosa di cui sei orgogliosa?
Lo sono ogni volta che do’ valore al mio tempo, rendendolo prezioso. Devo ammetterlo, ci sono alcune volte, per la frenesia dei nostri tempi, che lo dimentico. Il mio orgoglio è nel riprendere quel contatto, è nel rendermene conto e rallentare. Potrei stare per ore seduta a guardare una macchia luminosa cambiare forma mentre il mio gatto cerca di attirare la mia attenzione. L’aver imparato a “fermarmi” è ciò che più mi da’ soddisfazione. Chissà forse l’ho appreso proprio dalla fotochimica e dal fissaggio. Oppure ho cercato un alleato quando ho capito cosa fosse importante per me tanto da riempirmi il petto.

Un’occasione perduta?
Non voglio guardare al passato e pentirmi di aver perso qualcosa, sono felice, piuttosto, di averlo ritrovato nel momento in cui ho dato gran valore al tempo. Anche in forme diverse.
Una figura che ti inspira?
Ogni volta che mi viene posta questa domanda penso ai grandi artisti, musicisti, letterati, registi ecc. che, sicuramente, mi condizionano come padri e madri. Ma voglio rispondere con autenticità e semplicità: mia nonna Amelia. La sua forza è la mia forza.
Con quale aggettivo descriveresti il tuo lavoro?
SFOCATO! Certamente è difficile dare un unico aggettivo al mio lavoro. Sarebbe come darlo a me.
Posso dire, però, che è essenziale per me raccontare quello sfocato senza dare un’unica lettura, o porre un’unica domanda o addirittura rispondere a quella domanda. Non credo sia compito dell’artista. Quello che cerco di fare è aprire costantemente i mondi infiniti che risiedono in ognuno di noi. Lo spettatore quindi, risulta indispensabile per me, nonostante poi, il mio racconto o i miei racconti siano molto intimi. Ecco, probabilmente un aggettivo pertinente ma non unico è “intimo” ed è venuto fuori nel mio lavoro quando ho smesso di combatterlo per avvicinarmi al “mio e solo mio”, per farci pace.

Perché acquistare una tua opera?
Perché sono una pessima venditrice. A volte penso di auto-boicottare questo aspetto perché, spesso, creo proiezioni, installazioni, suoni e esperienze effimere e passeggere e, paradossalmente, non facili da fotografare.
Progetti per il futuro?
Ora è difficile progettare, stiamo vivendo un distanziamento sociale che ci segnerà in qualche modo. Prima del lockdown, stavo lavorando per l’inaugurazione di un project space domestico insieme a Gianni D’Urso, delle mostre ed alcuni laboratori che, per ovvie ragioni, sono stati rimandati. Sicuramente, come prima cosa, ho l’esigenza di tornare a fare in condivisione.
Grazia Amelia Bellitta nata a Policoro (MT) nel 1989.
Vive e lavora a Lecce.
Ha esposto a Kunstchau_contemporaryplace nel 2020.
GeneraHumana festival nel 2020.
Chez Maddalena di Romina de Novellis nel 2020