Quarantine and the city Un’italiana a Barcellona

Il cervello umano ci mette quindici giorni ad acquisire una nuova abitudine e perderne un’altra.

Lo sapevate?

15 giorni senza tabacco e potrete interromperne la dipendenza, 15 giorni senza vino e potrete smettere di essere alcolisti.

Questa è la frase che continuo a ripetermi dal 14 marzo, quandoil governo del nuovo paese in cui ho deciso di trasferirmi ha deciso di chiudere formalmente ogni tipo di attività/locale pubblico per, almeno, 15 giorni.

“in 15 giorni” mi ripetevo “migliorerò lo spagnolo, farò un corso di fotografia on line e riprenderò a fare yoga”.

E infatti è da una settimana che ho la tessera per gli sconti nel reparto alcolici e una confezione di tabacco formato convenienza da 10 euro e 50 per 300g.

Ho deciso di lasciare tutto e trasferirmi a Novembre perché non avevo le palle di lasciare il mio fidanzato ufficialmente, non ne potevo più di sentirmi la sua ombra inclusa in progetti di ricerca e di vita che non sentivo mai miei fino in fondo, sempre pilotata dal volere di qualcun altro per un bene più grande (tipo la partita Iva) in un paese che di fatto non esiste (rettifico: esiste, l’Italia esiste perché cazzo, qualcuno le tasse dovrà pur pagarle).

Quindi ho deciso di prendere un aereo e lasciarmi alle spalle il Bioparco, in Lunigiana, che ho gestito insieme al mio compagno per tre anni, deludendo di fatto tre persone: il mio fidanzato che si è sentito abbandonato, mio padre che ancora non ha capito cosa voglia fare nella vita e la sale manager della Ryanair perchèla sua compagnia aveva i prezzi troppo alti e alla fine ho dovuto optare per Easyjet.

 

Barcellona è una bella città: è bella perché ha un’anima, una forte personalità e una cultura particolare, tutte cose che i catalani ti ricordano ogni due minuti in un qualunque ristorantedi tapas. Non è una città per pigri (o meglio, se lo siete vi conviene cambiare rotta perché l’indolenzimento muscolare non è una bella sensazione) e ne rimango affascinata ogni volta che cammino per la strada.

Camminavo. Errore mio.

Dal 14 marzo Sanchez (per chi non lo conoscesse il premier spagnolo, prego) ha deciso di mettere la Spagna in lockdown. Certo, ha aspettato troppo e certo, ha messo blocchi e approvatodecreti dopo aver comunque concesso delle manifestazioni pubbliche in centro città a ridosso della crescita del contagio, ma in fondo chi siamo noi mediterranei per giudicare le scelte di un altro paese mediterraneo? Appunto.

Il problema è che il governo ha deciso di far chiudere completamente e senza possibilità alcuna anche alberghi, Hotel e Hostel, in meno di due giorni: decisione ponderata e sensata, chiaro, ma voi riuscite a immaginare dover gestire il rimpatrio forzato di turisti provenienti da tutto il mondo, con già le ciabatte e il doposole nella valigia, che non sono capaci di trovare la loro stessa posizione su google maps?

Vi aiuto io.

Da receptionist il mio compito è quello di prendermi carico dei problemi che i turisti possono avere, intendo problemi a livello logistico/finanziari e non mentali ma spesso non c’è un reale limite tra queste categorie. Per avere una descrizione precisa di quello che è successo dell’avvenuto stato d’allarme dai primi di Marzo ecco descritta una giornata tipo:

-08:00 inizio a lavorare e c’è già una ragazza americana che mi chiede informazioni sull’uso degli asciugamani,

-08:30 la ragazza americana torna sconvolta e mi mostra un messaggio di sua madre, evidentemente preoccupata (la madre, non lei che neanche si è accorta di essere nella sala comune in mutande e infradito)

-09:00 la ragazza americana ha videochiamato tutti i suoi familiari, amici, vicini di casa e conoscenti che ora sono preoccupati,

-12:45 la ragazza americana apprende che anche Trump è preoccupato e infatti ha deciso di mettere in lockdown tutto il nuovo continente: non accetterà voli e scambi commerciali dall’Europa e sticazzi del “TransAtlantic Free Trade Area e di “we are the world”,

-15:30 la ragazza americana mi chiede di poter fare il check out immediato e chiede un rimborso delle notti non usufruite, le dico che non è possibile in questa circostanza date le numerose cancellazioni di questi giorni,

-16.00 la ragazza americana manda un’email all’indirizzo email dell’Hostel mentre io lavoro al pc,

-16:05 apro l’email che la ragazza americana ha appena inviato davanti a me dal suo Iphone placcato d’oro e le rispondo che no, non è proprio possibile ottenere un rimborso,

-16:08 la ragazza americana mi saluta, triste e spaesata.

Questo è solo un caso esempio del delirio che abbiamo subito in questi giorni, la gente aveva l’urgenza di tornare a casa, la paura di rimanere bloccata senza possibilità di ritorno in un paese straniero, l’ansia del contagio, le notizie poco chiare, i dati scritti male e interpretati peggio. La Spagna non è molto diversa dall’Italia, si fa la stessa fatica a gestire la quarantena e le persone alle 20.00 applaudono dalle finestre per incoraggiare il lavoro del personale sanitario urlando “viva la Catalogna, abbasso il Re!”

 

Sapere che stai facendo la cosa giusta e che non hai altra scelta non rende poi le cose più facili: la mia manager ha dovuto mandare via volontari internazionali che ci aiutavano a gestire l’hostel da un paio di mesi, per noi erano amici ma questo non è bastato a tenerli con noi, abbiamo dovuto ridimensionare le spese, chiudere il telefono e la porta, non si può uscire neanche a fumare una sigaretta fuori al sole insieme perché dopo l’avvio del lockdown il controllo è serrato e la paura è che la polizia catalana non accetti che i tre dipendenti dell’Hostel vivano in un locale che, di fatto, è chiuso nonostante ci sia un contratto di lavoro e il nostro documento di residenza legale.

Siamo in tre adesso, io e i miei due colleghi sudamericani a dividerci delle stanze immense e vuote, tutte uguali.

Uno si è costruito una specie di “angolo biblioteca” in una stanza, passa gran parte delle sue giornate rintanato li, tra libri e cuscini che profumano ancora di fresco, l’altro cucina tutto il tempo ricette vegane e zuppe di verdure perché cosi rinforziamo il sistema immunitario, dice.

Io durante il giorno, se non scrivo al pc e non leggo, vado alla finestra più grande nella stanza A. Posso prendere meglio il sole da lì e sotto di noi vive una famiglia che ha un bel giardino con una piscina.

Oggi la loro figlia giocava con una barca, l’aveva messa a pelo d’acqua, è un vascello che nuota a fatica tra foglie secche e rametti dell’autunno appena passato.

Lei non si arrende, tutta sola prende un guadino da pesca il doppio di lei, raccoglie i rifiuti con pazienza e spinge la barca perché possa navigare libera.

Nota il mio sguardo divertito e mi fa “ciao” con la mano.

Forse, in fondo, è questo il segreto.